Reagire all’ingiustizia è legale?

da | Gen 2, 2022 | Legalità attiva. Pensiero e azione | 0 commenti

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Legalità attiva. Pensiero e azione | Capitolo 4

Reagire all’ingiustizia è legale?

Un viaggio a tappe all’interno del concetto di legalità in compagnia del pensiero di studiosi e filosofi di ogni tempo e con uno sguardo attento e critico rivolto all’attualità, per comprendere il valore della legalità e farsene portavoce. In alcun tappe, a cominciare dalla prima, privilegeremo la riflessione astratta, in altre verificheremo, con casi pratici e di attualità, in che misura e fino a che punto possiamo dire di vivere in un sistema che faccia della legalità un suo valore fondativo e condiviso.

La legge ingiusta è in sé e per sé una specie di violenza.
A maggior ragione lo è il venire arrestati per averla infranta.

Gandhi

Le leggi non devono essere giuste

Nell’ultimo contributo pubblicato all’interno di questa rubrica sul tema della legalità (“Legalità, democrazia e tirannia della maggioranza” – capitolo 3), ci siamo lasciati ripromettendoci di rispondere alla domanda se esistano mezzi cui l’individuo può legittimamente ricorrere per sottrarsi agli imperativi posti da leggi che egli ritenga ingiuste.

E’ una domanda antica, tanto almeno quanto lo sono le società dell’uomo organizzate intorno a regole condivise che i membri della comunità riconoscono come ad essi applicabili.
E non è dunque un caso che una delle sue più celebri formulazioni in forma artistica risalga al 442 a.c., anno nel quale andò in scena l’Antigone, tragedia scritta dal grande drammaturgo greco Sofocle.

Richiamiamone brevemente il nucleo essenziale.

Nell’antica città di Tebe, i fratelli Eteocle e Polinice si sono vicendevolmente uccisi in battaglia, ma mentre Eteocle ha combattuto in difesa della città, Polinice si è mosso in armi contro di essa e a ragione di ciò Creonte, re di Tebe, ha decretato che al suo corpo non venga data sepoltura.

Antigone, sorella di entrambi i combattenti deceduti, rifiuta di piegarsi alla volontà reale e si reca perciò a seppellire il corpo di Polinice. Creonte, venuto a conoscenza della trasgressione, la condanna a morte, tale essendo la punizione contemplata per il reato commesso.

Posta difronte al suo destino, Antigone non nega di aver trasgredito la legge della città, ma dichiara di preferire rimanere fedele “alle leggi non scritte, ma infallibili degli dei” piuttosto che osservare quelle stabilite dagli uomini.

Antigone, come Socrate, viola la legge della città e, come Socrate, non si sottrae alla punizione che ne consegue. Ella non ha tuttavia scelta: la coscienza, ossia il suo personale senso di giustizia, le impone di trasgredire la legge della città e di obbedire a quella da essa riconosciuta superiore, rispondente ad un senso trascendente di giustizia.

La domanda che ci poniamo è: il comportamento di Antigone costituisce vulnus alla legalità? E’ cioè un agire che si contrappone alla legalità? Se ci riportiamo a quanto abbiamo desunto dalla definizione di legalità riportata dalla Enciclopedia Treccani che citammo in apertura del primo contributo, la riposta non può che essere affermativa: in tanto in quanto Antigone viola consapevolmente la legge della città, ossia della sua comunità, Antigone compie un’azione illegale.

Se fosse lecito ad ognuno pretendere di anteporre alla legge il sistema di valori generato dalla propria coscienza, allora la legge perderebbe la sua stessa funzione, quella di uniformare il comportamento dei membri della comunità ispirandoli a comuni principi condivisi.

Eppure, istintivamente, questa risposta, così lapidaria, così anche logica, non suona del tutto appagante: quando giudichiamo una legge ingiusta, siamo indotti a disobbedirle e nel farlo sentiamo di non meritare alcuna punizione.

Nei suoi Essais (libro III, Cap XIII, De l’expérience) Montaigne ha scritto:

“Le leggi mantengono la loro considerazione non perché sono giuste, ma perché sono leggi. E’ il fondamento mistico della loro autorità. Non ne hanno altri. E torna a loro vantaggio. Sono fatte spesso da gente sciocca. Più spesso da persone che, per odio dell’eguaglianza, mancano di equità. Ma sempre da uomini: autori vani ed incerti.  Non c’è nulla così gravemente e largamente, né così frequentemente fallace come le leggi. Chiunque obbedisca loro perché sono giuste, non obbedisce loro giustamente, come dovrebbe”.

Pare una critica assai aspra: leggendo queste poche righe si sarebbe indotti a ritenere che occorre diffidare sempre fortemente delle leggi e che trasgredire ad esse sia spesso una necessità.
Personalmente ritengo che la frase più importante della citazione sia quella conclusiva: la ragione per cui si obbedisce alle leggi non la si dovrebbe cercare nella giustizia di cui ci si attende che le leggi stesse costituiscano traduzione. Perché, evidentemente, se ciò fosse, si dovrebbe spesso riconoscere che non v’è motivo di prestare obbedienza alla legge.
Alla legge, in altri termini, è dovuta obbedienza in quanto tale e non in tanto in quanto essa rappresenti traduzione di un sistema di valori idoneo ad incarnare un ideale di giustizia.

La difficile convivenza di leggi e giustizia

Eppure, come abbiamo sopra osservato, questa conclusione ci lascia istintivamente insoddisfatti. Abbiamo già avuto modo di sottolineare come la Costituzione rappresenti un primo fondamentale argine all’azione del legislatore. Oggi, ad esempio, sarebbe impossibile in Italia, così come in molti altri Paesi promulgare leggi razziali analoghe a quelle approvate dal parlamento fascista nel 1938: essendo in contrasto con i principi della nostra carta costituzionale, esse non potrebbero vedere la luce. Eppure, questo pur fondamentale baluardo non pare essere garanzia sufficiente a precludere la via dell’ordinamento a leggi ingiuste o che almeno una parte dei cittadini potrebbe considerare tali. Inoltre, e anche di ciò occorre tenere conto, la stessa Costituzione enuncia principi che non tutti i consociati sarebbero disposti a definire “giusti” secondo il loro personale sistema di valori.

Anche il più accanito sostenitore del giuspositivismo, dovrà riconoscere che affermare che il sistema delle norme costitutive dell’ordinamento dia vita ad un sistema oltre i cui confini esiste spazio solo per l’illegalità è eccessivo.

Può dunque identificarsi un luogo ideale entro il quale la violazione della legge non integra necessariamente una violazione della legalità? E questo luogo coincide con quello tracciato dall’azione di Antigone?

In un suo recente volume titolato “La legge e la sua giustizia”, il prof. Gustavo Zagrebelsky, già presidente della Corte Costituzionale, propone una lettura originale della vicenda di Antigone. Secondo l’illustre giurista “Antigone … è irrimediabilmente soggetta a una legge che la vincola oggettivamente … assai più cogente della legge occasionale, imposta dal potere nella città” (pag. 65/66). “… il contrasto che si vuole rappresentare è tra due leggi oggettive, che hanno entrambe la loro ragione d’essere: la legge del tempo e la legge senza tempo, l’una disposta nella sfera del potere, l’altra superiore a qualunque umana volontà” (pag. 67). Per cui, conclude l’autore “La tragedia non consiste nello scontro tra l’individuo e la totalità … è in sostanza lo scontro di due legittimità” (pag. 68): “… la legge di Creonte e il diritto di Antigone sono due lati della realtà che devono convivere”.

L’interpretazione di Zagrebelsky sembra finalizzata a sottolineare come una lettura storicamente contestualizzata della tragedia di Sofocle non autorizza a elevare Antigone ad antesignana dell’obiezione di coscienza, intesa in senso moderno, né a considerare il suo gesto come l’eroico opporsi della coscienza individuale ad un ordinamento percepito come ingiusto. Allo stesso tempo, comunque, conclude che la legge di Creonte e il diritto di Antigone sono due lati della realtà che devono convivere. Allora la domanda nodale diventa: in che modo essi possono convivere affinché siano entrambi parte di uno spazio di legalità condivisa?

A una tale domanda, la risposta può rinvenirsi nel tratto del mutuo riconoscimento: colui che infrange la legge per motivi che attengono al rispetto che egli sente di dovere nei confronti del suo sistema di valori e di ciò che ritiene giusto, non si sottrae alle conseguenza che la legge appresta quale effetto della sua azione e così facendo la riconosce. Dal suo canto la legge (o meglio ancora il sistema di diritto di cui la legge fa parte) prende atto dei motivi sottostanti la violazione del precetto, della cui genuinità costituisce prova la volontà del trasgressore di non sottrarsi alla sanzione, e così facendo, pur non accordando ad esso tutela, riconosce il sistema di valori che ha determinato la violazione.

Obiezione di coscienza o disobbedienza civile

Nel suo celebre saggio “Disobbedienza Civile”, Hannah Arendt distingue l’obiezione di coscienza dalla disobbedienza civile: la prima riguarda l’individuo, nasce e muore con l’individuo, non ha una matrice politica e si determina come conseguenza dell’affermazione di David Henry Thoreau, già riportata nel nostro precedente contributo, secondo cui “Il solo obbligo che ho il diritto di arrogarmi è quello di fare sempre e comunque quello che ritengo giusto”.
Essa si realizza come violazione diretta del precetto ritenuto ingiusto da parte dell’individuo, e anche quando l’atto di indisciplina è commesso da una moltitudine di soggetti, rimane ontologicamente individuale. La disobbedienza civile, al contrario, si caratterizza per una chiara matrice politica, per essere perpetrata da gruppi organizzati e produce spesso violazioni di norme diverse da quelle contro le quali intende agire.

Ma che si tratti di obiezione di coscienza o di disobbedienza civile, l’atto di insubordinazione rispetto al precetto è sempre manifesto, pacifico ed espone deliberatamente chi lo compie alla reazione dell’ordinamento, il cui castigo viene implicitamente accettato come conseguenza inevitabile dell’azione, anche se non necessariamente ritenuto giusto.

Sembrerebbe ora di poter concludere che esiste una spazio di legalità anche al di là del perimetro disegnato dalla legge, uno spazio che, a sua volta è definito dai concetti di obiezione di coscienza e disobbedienza civile nei termini in cui tali locuzioni sono state delineate dal saggio della Arendt. Ed è uno spazio che, come lo stesso Zagrebelsky assume, implica il riconoscimento di una necessaria distinzione: quella tra legge e diritto, perfettamente fotografata dal grande filosofo e giurista Norberto Bobbio che, nella sua opera “Teoria dell’ordinamento giuridico”, ha scritto: “quando studiamo il diritto come fatto, quale complesso di norme, noi elaboriamo una teoria dell’ordinamento giuridico; quando invece oggetto della nostra indagine è il diritto inteso quale insieme di valori (o disvalori), noi ci proponiamo il problema della giustizia, ed elaboriamo una teoria della giustizia”.

Lo spazio della legalità non coincide con il perimetro definito dalle leggi

Ma – occorre ancora domandarsi – a quali condizioni un qualunque sistema di valori, espresso in forme di violazione della legge che assumano i connotati dell’obiezione di coscienza o della disobbedienza civile, gode di un potenziale diritto di cittadinanza nello spazio della legalità.

La domanda è resa necessaria dal fatto che nel momento in cui si ammette che un sistema di valori individuale può costituire ragione valida di trasgressione della legge, allora si dovrebbe implicitamente ammettere che “qualunque” sistema di valori è idoneo allo scopo, per quanto possa apparire a noi e, soprattutto, alla legge ed all’ordinamento, non condivisibile.

In realtà, esistono limiti alla capacità di dilatazione dello spazio della legalità al di fuori dei confini della legge. Tali limiti sono definiti dalla Costituzione, in primis, e da altre fonti di diritto, in secondo luogo.

Tra queste ultime, meritano particolare attenzione la Dichiarazione universale dei diritti umani approvata il 10 dicembre 1948 dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite e la Dichiarazione sul diritto e la responsabilità degli individui, dei gruppi e degli organi della società di promuovere e proteggere le libertà fondamentali e i diritti umani universalmente riconosciuti, adottata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite con Risoluzione 53/144, 8 marzo 1999.

Il primo documento identifica i diritti e le liberà fondamentali, inalienabili ed incoercibili di ciascun individuo, definendo quindi un quadro di valori riconosciuto dall’intera comunità internazionale. Il secondo definisce un quadro di regole attuative e di prescrizioni dirette agli individui, alle loro associazioni ed agli Stati affinché a quel sistema di valori siano dati riconoscimento e tutela concreti.

L’art. 1 del secondo documento significativamente recita: “Tutti hanno il diritto, individualmente ed in associazione con altri, di promuovere e lottare per la protezione e la realizzazione dei diritti umani e delle libertà fondamentali a livello nazionale ed internazionale”. Particolarmente meritevole di sottolineatura è il fatto che tale norma riconosce a tutti non solo il diritto di promuovere la realizzazione dei diritti umani e delle libertà fondamentali, ma anche di lottare per essi.
Il concetto stesso di lotta implica un atteggiamento di manifesta contrapposizione e dunque anche di disobbedienza.

L’art. 10 stabilisce poi: “Nessuno deve partecipare, con atti o omissioni, alla violazione dei diritti umani e delle libertà fondamentali, e nessuno deve essere soggetto a punizione o a qualunque tipo di azione vessatoria per essersi rifiutato di farlo”, dal che discende che se il rispetto della legge comporta violazione dei diritti umani e delle libertà fondamentali, la disobbedienza ad essa nemmeno è sanzionabile.

Il comma 2 del successivo art. 12 decreta: “Lo Stato deve prendere tutte le misure necessarie per assicurare la protezione, da parte delle autorità competenti, di chiunque, individualmente ed in associazione con altri, contro violenze, minacce, ritorsioni, discriminazione vessatorie di fatto o di diritto, pressioni o altre azioni arbitrarie conseguenti al legittimo esercizio dei diritti di cui alla presente Dichiarazione”. Al riguardo è importante sottolineare come il dettato faccia divieto di adottare azione repressive nei confronti di chi abbia esercitato taluno dei diritti riconosciuti e tutelati dalla Dichiarazione anche se contemplate dal diritto positivo.

Da ultimo l’art. 17 sancisce: “Nell’esercizio dei diritti e delle libertà di cui alla presente Dichiarazione, tutti, agendo individualmente o in associazione con altri, saranno soggetti alle sole limitazioni che, conformi agli obblighi internazionali applicabili, siano determinate dalla legge con l’esclusivo fine di assicurare il dovuto riconoscimento e rispetto dei diritti e delle libertà altrui, e di soddisfare i giusti requisiti della moralità, dell’ordine pubblico e del benessere generale in una società democratica”.

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